Claudia Fanti per Il Manifesto, edizione del 24.12.2021
Sarà, quello brasiliano, un Natale nel segno della fame. Insieme alla gestione criminale della pandemia, all’aumento incontrollato della deforestazione, alla guerra contro i popoli indigeni e a un lungo eccetera, è anche per questo che verrà ricordato il governo Bolsonaro.
Mentre le foto di persone impegnate a frugare tra gli scarti di macelleria hanno fatto il giro del mondo, i dati disegnano una realtà drammatica: quasi 117 milioni di abitanti, pari al 55% della popolazione, risentono attualmente di qualche forma di insicurezza alimentare, di cui 20 milioni di persone non riescono a mangiare nulla per 24 ore di seguito e 24,5 milioni cominciano la giornata senza sapere come nutrirsi.
E, come se non bastasse, quel poco che riescono a mangiare è pieno di veleni: secondo i dati Fao, il Brasile è il terzo paese al mondo per uso di pesticidi (dopo Cina e Usa), il 30% dei quali altamente tossici per l’ambiente e la salute. Una situazione anch’essa peggiorata sotto il governo Bolsonaro, il quale, solo da gennaio a settembre, ha autorizzato 1.215 nuovi pesticidi ed erbicidi.
Sotto la morsa della pandemia, dell’inflazione, dell’aumento del prezzo degli alimenti e del lavoro precario e malpagato, la maggioranza della popolazione spende tutto quello che guadagna in cibo, affitto e trasporti. Non a caso, negli ultimi 10 anni, il numero di favelas è raddoppiato nel paese.
Non sorprende allora che le organizzazioni che compongono il Tribunale popolare della fame si siano rivolte alla Corte Suprema sollecitando un intervento sul governo – ritenuto colpevole, «per azione e omissione», di «violare il diritto umano a un’alimentazione adeguata» – per costringerlo ad adottare misure immediate a favore della popolazione, a partire dal settore più duramente colpito: quello delle donne nere.
C’è anche però chi prova a correre ai ripari, a cominciare dal Movimento dei Senza Terra, il quale, già molto attivo dall’inizio della pandemia con la distribuzione di oltre 5mila tonnellate di alimenti, ha lanciato dal 10 dicembre fino al 6 gennaio la campagna «Natale senza fame», con lo slogan «Coltivando solidarietà per alimentare il popolo».
Obiettivo dell’iniziativa: garantire a migliaia di famiglie vulnerabili in tutte le regioni del paese una quantità sufficiente di alimenti prodotti negli insediamenti e negli accampamenti della Riforma agraria popolare, nella consapevolezza che «mangiare è un atto politico». E così dimostrare come sia l’agricoltura familiare contadina a nutrire realmente il popolo brasiliano e non certo l’agribusiness con i suoi vertiginosi profitti e i suoi colossali danni agli ecosistemi e alla salute umana.
In questo quadro, la fretta di uscire dall’incubo Bolsonaro è tale da aver anticipato di vari mesi, nei fatti, l’inizio della campagna elettorale, in vista delle attesissime presidenziali del prossimo ottobre.
Tutti gli occhi sono puntati su Lula, in netto vantaggio in tutti i sondaggi: secondo l’Istituto Datafolha, per fare solo un esempio, il leader del Pt vincerebbe già al primo turno con il 48% dei voti, contro il 22% di Bolsonaro, mentre, in un eventuale ballottaggio, avrebbe la meglio sull’attuale presidente con il 59% dei voti contro il 30%.
E mentre l’affannosa ricerca da parte dell’élite di una «terza via» tra Lula e Bolsonaro non sembra produrre risultati – neppure la pre-candidatura dell’ex giudice Sergio Moro, malgrado il forte appoggio mediatico, pare decollare -, a sinistra fa discutere il sempre più probabile ticket presidenziale Lula-Alckmin, l’ex governatore di São Paulo di cui si ricorda, tra l’altro, il sostegno all’impeachment di Dilma Rousseff nel 2016.
Se infatti la scelta di Geraldo Alckmin come vicepresidente genera, in alcuni settori del Pt, il timore che la sua presenza possa allontanare parti della sinistra e pure incoraggiare tentativi di golpe contro Lula, in altri si evidenzia come una figura gradita all’oligarchia sia il prezzo da pagare per la creazione di un fronte comune contro Bolsonaro, nella prospettiva di un nuovo, inevitabile, governo di coalizione. Un governo che, si sottolinea, non potrà certo dirsi socialista, ma punterà almeno alla ricostruzione del paese e al rilancio delle politiche sociali.