Finito l’incubo Bolsonaro restano i veleni del bolsonarismo e un assetto politico fragile. Il terzo mandato di Lula si annuncia sotto il segno dell’equilibrio tra politiche sociali progressiste e conferma del modello economico estrattivista seppure in forme meno aggressive e con una sensibilità ecologica accresciuta rispetto al passato.

di Claudia Fanti, Tratto da: Adista Documenti n° 39 del 19/11/2022

L’incubo è finito. Per tutte le persone che hanno a cuore la democrazia, la sorte dei poveri e degli indigeni, la sopravvivenza dell’Amazzonia, il sollievo per la vittoria di Lula è indescrivibile. Lasciarsi alle spalle il bolsonarismo, tuttavia, non sarà per nulla facile: come evidenzia Juliette Dumont, docente di Storia contemporanea dell’Iheal (Institut des Hautes Etudes de l’Amérique latine) di Parigi, esiste ormai «un’influenza fondamentale del bolsonarismo su tutto il sistema politico brasiliano». Se ben 58 milioni di brasiliani hanno optato per presidente più impresentabile della storia del Paese, al Congresso il suo partito, il Partido Liberal, ha ottenuto 99 seggi (su 513) alla Camera dei deputati, tre volte più che nel 2017, e 14 al Senato, contro gli 8 del Partito dei lavoratori di Lula. Ma l’estrema destra ha conquistato anche diversi governi statali, a cominciare da quello più ricco, São Paulo, che rappresenta un terzo di tutto il Pil brasiliano.

Ma è anche il veleno inoculato dal bolsonarismo tra gli stessi poveri a destare preoccupazione: come ha evidenziato il noto sociologo brasiliano Jessé Souza, se Lula è stato votato dai più poveri, in particolare nel Nordest, a scegliere Bolsonaro è stata però una legione di bianchi poveri e razzisti di São Paulo e del Sud del Paese, «quelli che si trovano sulla scala sociale appena un gradino sopra i neri, fieri della loro origine europea e del loro cognome italiano o tedesco». Persone anch’esse umiliate, ma a cui nessuno ha spiegato perché lo sono. Persone a cui Bolsonaro ha offerto su un piatto di argento un facile capro espiatorio: i neri e il Pt che li sostiene. Il razzismo alimentato da Bolsonaro ha investito anche gli evangelici, poveri, molte volte neri e anche loro oppressi e proprio per questo vulnerabili alla trappola della contrapposizione tra il povero che è onesto e il povero che è criminale, e che è nero: «Un nero catalogato come onesto, umiliato per tutta la vita, abbraccia questa visione come un naufrago fa con una boa di salvataggio», perché il bisogno di essere riconosciuti e rispettati è una necessità primaria dell’essere umano. Ma questo riconoscimento, in Brasile, «diventa un’arma utilizzata per umiliare chi è più in basso di te».

Non sono stati però solo gli evangelici a votare Bolsonaro. Come ci ha spiegato Marcelo Barros, i bolsonaristi che hanno creato incidenti al santuario di Aparecida e che sulle reti sociali hanno attaccato sacerdoti e vescovi non erano evangelici o pentecostali, ma cattolici. È questo, sottolinea, il risultato della demolizione delle istanze più aperte e progressiste operata dal Vaticano a partire dagli anni ’80, grazie a cui «oggi in Brasile ci sono sacerdoti e vescovi che fanno propaganda a favore di Bolsonaro contro il comunismo e che negano la comunione a un fedele che, per caso, porta sulla camicia una spilla rossa del Pt».

In questo quadro, la strada per Lula non sarà certo in discesa. Appoggiato da un ampio arco di alleanze formato da dieci partiti e da non pochi ex avversari politici – il suo vice, Geraldo Alckmin, è stato pure tra i sostenitori del golpe giudiziario-parlamentare-mediatico contro Dilma Rousseff nel 2016 – Lula darà necessariamente vita a un governo di “conciliazione di classe”, come lo sono stati i suoi precedenti governi dal 2002 al 2010. Ma nel contesto di un Paese diventato nel frattempo più conservatore, più diseguale e più diviso.

E le élite gli stanno già con il fiato sul collo: “Al centro, Lula”, ha scritto la Folha de São Paulo, il giornale dell’establishment paulista, consigliando moderazione fiscale e un limitato intervento dello Stato per non provocare scontri con quasi la metà del Paese che ha votato Bolsonaro.

Le aspettative che le forze popolari ripongono in Lula sono però molto alte. Anche sul lato ambientale, dove il leader del Pt aveva ricevuto in passato le critiche più aspre. Che la sua sensibilità ecologica sia cresciuta in questi anni, come sostiene chi lo conosce meglio, sembra confermarlo anche la riconciliazione storica con Marina Silva, ministra dell’Ambiente dal 2003 al 2008, quando uscì dal governo Lula proprio in polemica con le sue politiche scarsamente rispettose degli ecosistemi del Paese. Una riconciliazione annunciata già a settembre, con la presentazione da parte di Marina Silva di una serie di proposte che saranno incluse nel programma di Lula, tra cui l’immediato rilancio del piano di prevenzione alla deforestazione dell’Amazzonia e la sua estensione agli altri biomi del Paese, la creazione di un’autorità nazionale per la lotta al cambiamento climatico, la ripresa del processo di demarcazione delle terre indigene.

Difficilmente Lula sarà disposto a mettere in discussione, come ha fatto invece Gustavo Petro in Colombia, il modello estrattivista consolidato in tutto il continente: lo ha chiarito lui stesso in una recente intervista al Time, quando ha definito «irrealistico» pensare anche solo di limitarsi a sfruttare le riserve petrolifere già note, puntando sul rilancio della Petrobras come «grande impresa nazionale», sottratta al controllo dei grandi azionisti stranieri, e mirando a fare di nuovo del Pré-Sal (gli enormi giacimenti petroliferi al largo delle coste brasiliane) «il nostro passaporto per il futuro». Ma, almeno, il leader del Pt ha promesso una «lotta implacabile alla deforestazione illegale», recuperando quelle strategie che, in passato, avevano condotto a una riduzione quasi dell’80% del tasso di deforestazione, come pure la creazione di un Ministero dei popoli originari, affinché «mai più siano trattati come cittadini di seconda classe».

Foto di Wellington Lenon, www.mst.org.br